26/10/2005  Da Gianpietro Séry:

Una psicoanalista, sull'amore...
Riporto un bellissimo intervento della Dottoressa Raffaella Colombo, psicoanalista a Lugano e Milano:
"Chi è stato presente al primo incontro ricorderà che Giacomo B. Contri ha presentato l’amore come un caso di impossibile. La bella pensava di avere l’amore, aveva una tecnica, ma non amava il suo amante, anzi non voleva amante alcuno. L’amore rimane impossibile finché rimane esclusivo, cioè transitivo: io ti amo. È dal momento in cui amare passa a intransitivo, come altri verbi, tra cui pensare: «Io penso a te», che l’amore diventa possibile: «Io amo (a) te», perché possibile è solo l’amore rivolto a qualcuno tra altri. L’amore come tecnica trasforma l’amore da impossibile a possibile, scioglie la rottura tra Amore e amore. Il tema odierno mette in evidenza l’iniqua distinzione tra Amore (assoluto) applicato - con le regole del caso - al caso particolare (relativo) e amore che è sempre relativo: relazione di beneficio con un altro soggetto tra altri. Una distinzione cattiva che fa versare lacrime all’umanità fin dalla prima volta.
L’amore come tecnica da impraticabile diventa praticabile.
Data la definizione di tecnica come insieme di regole (vedi dizionari della lingua italiana), l’applicazione della definizione all’amore fa dell’amore stesso «un insieme di regole atte a dirigere efficacemente un’attività». Rispetto poi a un’altra definizione di tecnica: «Manipolazione di materie prime per ottenere un risultato», l’asserzione per cui l’amore è una tecnica comporta trattare l’altro come un mezzo. Sembra di essere finiti nell’utilitarismo: io uso l’altro per i miei fini. Può mai essere amore, questo? Il fatto che io mi lasci usare da un altro per i suoi fini è la peggiore delle sudditanze, altro che amore. Se avete presente la legge di moto del corpo che è stata presentata nelle relazioni precedenti, dovrebbe risultare evidente che l’amore è questa legge stessa. La tecnica trova collocazione nel movimento del Soggetto verso l’Altro. Non si può parlare di amore se non c’è riscontro di beneficio da parte di entrambi i partners: ogni altro amore sarà menzogna.
La formulazione della norma di beneficio: agisci in modo tale da ricevere il beneficio dall’Altro tramite un lavoro, indica il lavoro del Soggetto che mette a disposizione tutti i suoi mezzi perché l’Altro si rivolga a lui. In questo lavoro (di rapporto), come in qualsiasi altro lavoro, all’Altro viene offerta materia prima affinché a sua volta vi operi un intervento di trasformazione.
Nella legge di moto del corpo, il lavoro di rapporto del Soggetto e il successivo lavoro dell’Altro danno un prodotto finale con guadagno per entrambi e soddisfazione per supplemento.
La materia prima messa a disposizione dal Soggetto non ha limiti: comprende beni quali i pensieri, il proprio corpo, attività, oggetti, messi a disposizione e trattati dal Soggetto per l’Altro. L’Altro stesso, in quanto soggetto, sarà a sua volta un mezzo perché ci sia soddisfazione. Rammento che la legge di moto del corpo già enunciata: agisci in modo tale da ottenere il beneficio per mezzo di un Altro, giudica e corregge l’imperativo morale kantiano: agisci in modo tale da fare il bene o agisci come se tutti dovessero agire così con te. La correzione che abbiamo introdotto valorizza la legge kantiana in quanto questa riconosce la facoltà individuale di pensare leggi (universale) ma ne giudica la perversione. Per Kant il prossimo non deve essere mezzo. Deve essere fine. Ma a tale fine («per il tuo bene») tutto sarebbe morale, anche farti del male. Abbiamo individuato la perversione della legge morale kantiana proprio intorno al trattamento che essa riserva all’altro e all’assenza del corpo. Nella legge di moto del corpo, che a questo punto possiamo chiamare legge dell’amore, l’altro è componente quanto lo sono i sessi e ogni altro bene, in quanto mezzo per la soddisfazione. Ecco perché trattare l’altro come mezzo per la soddisfazione è la massima prova di onore reso a un altro. È una dichiarazione d’amore.
È una novità della legge dell’amore l’abolizione dell’utilitarismo (come si dice abolizione della schiavitù), perché per il pensiero di natura l’offerta (di soddisfazione) da parte dell’altro è avvenuta prima della domanda del soggetto, suscitando quest’ultima. Si potrebbe riformulare la massima individuale in questo modo: ciò che fa piacere a te piacerà anche a me nella misura in cui piace a te. Michela Struffi ricordava nell’introduzione che la legge dell’amore è «tu mi darai soddisfazione».
Quando io posso dire queste parole a qualcuno, riconosco il destinatario del mio messaggio come affidabile. Ciò che vale come soddisfazione oggi, lo varrà anche domani. Se non valesse domani, non varrebbe nulla neppure oggi. Vedremo come quando questo non accade, si configuri il campo della patologia in cui il dubbio investe il rapporto incrinandolo fin dal pensiero di esso: «Ciò che tu mi hai detto o dato oggi, forse domani non me lo dirai o non me lo darai. Dunque non posso sapere se ti amo».
«Allattandomi mia madre mi ha eccitato al bisogno di essere soddisfatto». Dall’angolo di incidenza del bambino abbiamo la prima formulazione della legge di moto del corpo. Allorché l’individuo, ormai adulto, giunge a pensare per la prima volta in vita sua all’inizio della soddisfazione, prende atto di essere stato un tempo tra le braccia di un altro, e di dovere alle cure di costui - non necessariamente ai suoi meriti personali più o meno degni di nota - l’inizio della sua vita psichica. Prima che un altro mi eccitasse al bisogno di soddisfazione non c’era soddisfazione e prima di provare soddisfazione non esisteva neanche il bisogno: il bisogno nasce nell’individuo in quanto bisogno di soddisfazione con la soddisfazione di esso. Risulta evidente che fin dall’inizio non c’è separazione tra bisogno e soddisfazione, e la soddisfazione viene da un Altro.
La formula citata è stata ricordata da una donna, madre di tre figli, che ricevo in analisi e che ha letto nostri testi e partecipato a corsi promossi da Studium Cartello. Quando sente o legge «Allattandomi mia madre…», deve ridere. Trova che la frase sia non proprio ridicola, ma quanto meno curiosa. Comunque imbarazzante. Il suo pensiero è rivolto al ricordo dell’allattamento e non capisce come le sia stato possibile, allattando i suoi bambini, avere suscitato in loro soddisfazione. Con la primogenita in particolare, la sua esperienza di soddisfazione era stata la seguente. Essendo incerta e molto criticata dalla propria madre, dalla suocera, da altri parenti, e temendo di sbagliare, si era concentrata sulla tecnica. Diceva di avere usato il massimo impegno per realizzare il più perfettamente possibile la tecnica dell’allattamento per far stare bene il bambino e non si era curata d’altro.
Allattava. Ebbene, se il racconto fosse vero, questa donna avrebbe realizzato quello di cui stiamo parlando: non è affatto necessario che la madre si preoccupi di amare i suoi figli. Il fine della madre era l’allattamento, ma per il bambino si tratta di soddisfazione e inizio della vita psichica. La possibilità della soddisfazione sta in una pratica: in un buon trattamento.
Nella legge di moto, il fattore «per mezzo di un Altro» è ciò che fa sì - tecnica - che soddisfazione accada per il Soggetto e per l’Altro. L’allattamento, azione che comporta una tecnica, fatto pratico, corporeo, è l’esempio più facile che abbiamo trovato per descrivere come accada ciò che prima non c’era: la soddisfazione e l’iniziativa individuale atta alla possibilità che si ripeta: il pensiero della legge di moto. Il puro nesso tra individuo-ambiente non dà questo: senza accadere lascia il soggetto nel disagio e nell’inconcludenza. Nelle cosiddette scienze umane, la coppia individuo-ambiente si presenta come esaustiva, mentre il fattore determinante dell’accadere, che è un accadere psichico, non viene considerato, a dimostrazione del fatto che le scienze umane non sono né scienze né umane.
Passiamo all’altro versante del titolo: come si configura l’amore se l’amore avesse una tecnica. Che l’amore abbia una tecnica è un errore della patologia e nella patologia. Il motivo è semplice: ci sarebbe da una parte l’amore e dall’altra la tecnica da usare per l’amore. Se l’amare avesse bisogno di una tecnica, non fosse cioè già una tecnica, il mondo sarebbe diviso tra Amore assoluto e amore relativo, tra coloro che amano senza tecnica e coloro che amano con la tecnica. Il medesimo errore era stato enunciato, ma non riconosciuto come tale, dalla donna di cui vi parlavo: «Io sono stata attenta solo alla tecnica. Ma io non amavo i miei bambini». Il falso problema di questa donna aveva creato reali e ingenti problemi ai suoi figli, continuamente sottoposti a prove d’amore sempre insufficienti per la madre. Supporre che ci fossero da una parte l’amore e dall’altra delle tecniche, la rendeva insoddisfatta di sé in quanto riteneva di non amare abbastanza i figli, in particolare la primogenita, che non sentendosi a sua volta amata, o meglio trovando nella madre solo insoddisfazione nei suoi confronti, si era isolata nella patologia psichica.
Sulla divisione indebita tra amore astratto e tecnica, trovano terreno e si alimentano le varie teorie patologiche dell’amore, compresa quella dell’Amor cortese, in cui si colloca il racconto iniziale. Alcune espressioni note a tutti sono: «Tu mi strumentalizzi», «Tu non mi ami per come sono», «Io sono cercata soltanto per il mio corpo», «Gli uomini vogliono solo quello», «Non mi avrai mai», «Io ti amo e ti sposerò, ma se tu mi ami dimostramelo».
Un ulteriore esempio clinico: una giovane donna che ha appena terminato gli studi è stata recentemente invitata da un collega, padre di due bambine piccole, e racconta due diversi episodi. Il collega, molto stimato da lei - «È un papà facile, un papà che non si stanca» -, si occupa delle sue due bambine, e pur lavorando molto le porta spesso con sé senza eccessive preoccupazioni.
La giovane è sorpresa del fatto che le bimbe di circa quattro e sei anni ottengano dal papà il consenso di attraversare la strada da sole. Per contrasto, pensa alla sua esperienza attuale con la propria madre che ancora vorrebbe prenderla per mano nell’attraversare la strada. Se i bambini vengono trattati per quello che sono, ossia dei grandi, si comportano da grandi.
Diversamente dal primo, il secondo episodio la infastidisce. Arrivate all’ascensore, le due bambine disputano per avere la precedenza sul pulsante, finché una di loro dice al padre: «Papà, toccava a me premere il pulsante!» e il papà: «Va beh! Lo fai la settimana prossima». La risposta del padre mette pace al momentaneo dissidio tra le bambine, ma indispettisce la donna. Lei non avrebbe sopportato che suo padre l’avesse trattata con tale freddezza, quasi che avesse detto: «Arrangiatevi». Questo è un esempio elementare di buon trattamento, riconosciuto come tale dalla donna stessa in seguito: «Con me voi certe storie non le fate». È un invito a sostenere un rapporto non al di qua della soddisfazione. Che cosa vuol dire trattare bene? È un caso di buon trattamento o no, quello descritto con: «Arrangiatevi»? O quello di un padre che non si impietosisce di fronte al figlio che non vuole andare a scuola, oppure che non vuole presentare degli esami, e lo tratta con modi bruschi? È trattare bene non l’aver pietà per l’altro che dicesse di non essere capace, bensì l’incoraggiamento. Eppure tale pietà mal riposta è ciò che incontriamo con molta frequenza nei rapporti non solo tra adulti e bambini, ma anche tra uomo e donna. Il trattare bene non è scendere a patti con l’altro che si dice incapace. Io non posso avere rapporto con un altro che si dichiara capace: sarei un impotente, salvo assumere la posizione insoddisfacente di maestro, poliziotto, medico, consigliere.
Dunque o l’amore è una tecnica o è quello scrupolo che fa sì che nel rapporto vi sia un’obiezione per cui io dirò di amarti, ma ti tratto male; ti tratto bene, ma non saprò dire se ti amo. O l’amore è una tecnica, o il pensiero che l’amore abbia una tecnica, che ci sia qualcosa di più oltre il trattare bene, introduce nel rapporto un’obiezione. Le due possibilità comprendono tutte le varianti della patologia, dal trattare bene come puro formalismo, che copre contemporaneamente quella forma di maltrattamento che è l’odio, oppure, alle massime dichiarazioni d’amore che convivono con i peggiori maltrattamenti.
Applicata ai bambini, questa falsa distinzione fra amore e tecnica fa si che si debba ricorrere alla «pedagogizzazione» dei rapporti.
Il mio collega Glauco Genga mi ricordava la frase preferita di un debole genitore - che avrebbe fatto meglio a tacere - al figlio, e che ciascuno di noi potrebbe avere nel proprio curriculum: «Te lo dico per il tuo bene».
O l’amore è una tecnica o è un imperativo: devi amare. Quest’ultima è l’esperienza frequentissima che si incontra quando un uomo e una donna si sposano, smettono di essere amanti e diventano, lui in pantofole, lei in ciabatte, due disoccupati quanto al rapporto, che non si muovono più perché l’offerta e la domanda che costituisce il rapporto si ripeta. Nel momento in cui si sposano, l’amore diventa un imperativo: devi amare. Devi amare la mamma, devi amare il papà, devi amare i tuoi figli, devi amare la tua donna. Un amore come imperativo è un amore stravolto, che prescinde dal fine di soddisfazione.
Mentre l’amore come tecnica fa sì che io dia soddisfazione a te mostrandoti che mi hai dato soddisfazione, l’imperativo sottrae la soddisfazione all’Altro e isola il piacere. Che cosa resta? L’imperativo applicato al piacere: devi godere! Oppure l’imperativo applicato all’amore: devi amare! Mentre gli riferivo ciò, Glauco Genga mi ricordava che l’imperativo devi amare la tua donna è ciò che mette in crisi il ragazzo, l’adolescente. L’adolescente che si sente dire «Devi amare le ragazze» o che si sente dire che l’amore è puro, insomma che deve amare, si porrà l’interrogativo: «Ma chissà se sarò capace? Chissà se riuscirò?» e si sentirà costretto a ricorrere a tecniche.
Per concludere, la via di uscita dai pensieri patologici riguardo all’amore non è evidentemente la disperazione o lo scandalo – non ce la farò mai - ma il giudizio sulla falsità della divisione dell’amore tra due amori diversi. È il bambino il riferimento migliore per sapere che l’amore è una tecnica, e la via per tornare a riappropriarsene. «Se non tornate come bambini…».
Di amore, lui se ne intendeva."